Per capire quali strategie sia possibile attuare per migliorare la qualità del latte occorre rivedere i meccanismi di sintesi, specificatamente di grasso e proteine.
La sintesi del grasso
Il grasso del latte è principalmente costituito da trigliceridi. Il latte di capra rispetto al latte vaccino presenta un profilo di acidi grassi abbastanza diverso. Il latte di capra risulta particolarmente ricco di acidi grassi a medio-lunga catena e, in termini assoluti, presenta acidi grassi con un minor grado di saturazione (Chillard et al., 2003). Questo aspetto, abbiamo già sottolineato, lo rende particolarmente interessante per la salute umana.
Gli acidi grassi a corta catena vengono sintetizzati a livello mammario da precursori derivati dalla fermentazione ruminale (acetato e butirrato). Gli acidi grassi a lunga catena vengono invece trasferiti direttamente alla mammella dal torrente circolatorio. Quelli a media catena hanno una genesi mista.
La percentuale di grasso del latte di capra risulta più alta all’inizio della lattazione per poi calare nella maggior parte della lattazione. Verso la fine della lattazione può nuovamente aumentare (Sauvant et al., 1991). Questo fenomeno dipende da due motivi: il primo è rappresentato dall’effetto diluizione che concentra di più il grasso ad inizio e alla fine della lattazione, ovvero quando abbiamo produzioni inferiori; il secondo è legato alla mobilizzazione dei grassi sotto forma di corpi chetonici (NEFA), quindi è specifico dell’inizio della lattazione. I corpi chetonici soni i diretti precursori per la sintesi lipidica mammaria. Ricapitolando, all’inizio lattazione: bilancio energetico negativo, aumento della concentrazione di NEFA, maggiore sintesi lipidica mammaria. Inoltre, nella normale stagione riproduttiva con parti a fine inverno, si supera il picco di lattazione tra la primavera e l’estate, periodo in cui si registrano i più bassi titoli di grasso in assoluto fino a raggiungere addirittura l’inversione grasso-proteine: l’enorme rompicapo per chi si occupa di alimentazione della capra da latte.
La sintesi della proteina
La proteina del latte è principalmente rappresentata dalla caseina (75-80%) seguita da lattoglobuline, lattoalbumine e immunoglobuline soprattutto. Una piccola quota, a completare la componente azotata del latte, è costituita dall’azoto non proteico di cui la principale è l’urea.
La proteina del latte viene sintetizzata a livello mammario, anche se il meccanismo di sintesi non è ancora completamente conosciuto. La via di sintesi della proteina a livello mammario deriva dalla disponibilità dei suoi costituenti, ovvero gli aminoacidi.
Occorre ricordare che gli aminoacidi si suddividono in essenziali e semi-essenziali, ovvero quelli che devono essere assunti con la dieta perché l’organismo non è in grado di produrli e non essenziali, quelli che l’organismo è in grado di produrre. Risulta piuttosto chiaro che l’assenza di amminoacidi essenziali pregiudica la normale sintesi proteica in termini generali.
La ghiandola mammaria è inoltre un organo molto avido di aminoacidi essenziali. In un animale in lattazione, la ghiandola mammaria rappresenta la maggiore utilizzatrice di amminoacidi della dieta (Lapierre et al., 2012). Ricapitolando gli aminoacidi essenziali, risultano limitanti per la sintesi della proteina del latte.
Strategie nutrizionali
Le strategie nutrizionali per migliorare la qualità del latte non sono semplici, ma le soluzioni derivano dai concetti appena esposti. Occorre ricordare che la stagione influisce in maniera sostanziale sulla qualità del latte. Tendenzialmente i titoli sono più alti in autunno-inverno e tendono ad abbassarsi in primavera-estate quando infatti viene chiesto al professionista di intervenire. Vediamo come.
La componente lipidica
Abbiamo visto che gli acidi grassi a corta catena derivano da acetato e butirrato prodotti a livello ruminale. L’acido acetico deriva dalla degradazione della cellulosa operata dalla microflora ruminale e rappresenta la quota di acidi grassi volatili (AGV) maggiormente rappresentata (circa il 70%). L’acido butirrico invece è presente in quantità decisamente inferiore. La strategia migliore per aumentare la sintesi mammaria di grasso è favorire la formazione di acetato al livello ruminale quindi ottimizzare l’utilizzo della fibra (NDF).
Oltre al contenuto di fibra della dieta, un ruolo ancora più decisivo è determinato dalla degradabilità della fibra. Rispetto ai carboidrati non strutturali la degradabilità della fibra è molto più lenta e dipende da molti fattori. Parlando di foraggi, che rappresentano sicuramente gli alimenti apportatori di fibra per eccellenza, vediamo di capire quali sono i fattori che ne influenzano la degradabilità.
L’utilizzo dell’NDF dipende, oltre che dalla microflora presente nel rumine, anche da alcune caratteristiche intrinseche della fibra stessa ovvero la capacità che ha di stimolare l’attività ruminativa (masticazione e ruminazione), caratteristica che è indicata come peNDF. Occorre ricordare che per avere una efficace attività ruminativa almeno 2/3 dell’NDF deve essere peNDF!
La condizione fondamentale per preservarne le qualità nutrizionali è rappresentata dallo sfalcio al giusto stadio vegetativo, ovvero la prefioritura che, a colpo d’occhio, significa il momento in cui si vede circa il 10-15% di fiori nel prato da sfalciare. Più si tarda, più l’NDF si sposta verso ADF e ADL o, più semplicemente, la componente fibrosa diventa sempre meno degradabile. Questo semplice e banale concetto rappresenta ancora oggi il più insidioso limite all’utilizzo efficiente della componente fibrosa.
Anche nell’allevamento della capra da latte, sta crescendo l’utilizzo di foraggi fasciati. Occorre però ricordare che lo stesso foraggio fasciato o affienato avrà caratteristiche differenti che devono essere tenute in considerazione. Ad esempio, un fieno di prato polifita, se venisse fasciato, avrebbe il medesimo contenuto in NDF, ma circa il 20% in meno di peNDF con un aumento della seppur bassa, frazione A dei carboidrati (AGV e zuccheri semplici) e la B1 (amidi, ma soprattutto fibra solubile) e ovviamente si riduce la quota di B2 (la fibra disponibile insolubile). Ricapitolando, il processo di insilamento del foraggio migliora la degradabilità della fibra ma contemporaneamente riduce la peNDF.
Per massimizzare la concentrazione lipidica del latte occorre pertanto focalizzarsi sulla qualità della fibra sotto tutti gli aspetti appena presi in considerazione. Quando la qualità dei foraggi non è ottimale una strategia efficace potrebbe essere quella di fornire della fibra degradabile alternativa, altrettanto nobile, come per esempio le polpe di bietola e i distillers. Garantiremo però la funzionalità ruminale ad esempio introducendo della paglia che, a fronte di una fibra poco degradabile (frazione B e C), assume un significato soprattutto funzionale.
Per quanto riguarda la componente lipidica di derivazione non ruminale (ac. grassi a media e lunga catena), abbiamo visto che dipende direttamente dalla quota lipidica della dieta. L’aumento del contenuto lipidico della dieta può essere una strategia utile.
Alcuni studi (Inglingstad et al., 2017) hanno efficacemente dimostrato che anche nella capra l’aggiunta di grassi idrogenati ha contribuito ad aumentare la concentrazione di grasso del latte (come peraltro è già ampiamente conosciuto per la bovina da latte (Rabiee et al., 2012)). Anche il profilo degli acidi grassi però si sposta verso quelli a media e lunga catena e soprattutto a minor grado di saturazione. Questo scenario potrebbe rappresentare un valore aggiunto per la commercializzazione del latte come alimento. In fase di trasformazione invece, questo particolare aspetto del profilo degli acidi grassi rappresenta un problema per le caratteristiche strutturali del prodotto..
Occorre però ricordare che, per soddisfare il fabbisogno energetico già in situazioni normali, le razioni tipiche delle capre in lattazione vengono formulate con concentrazione di grasso variabile tra il 4-4,5% della SS. Questo perché nella capra si rischia facilmente di eccedere in amidi o NSC esitando inesorabilmente nella patologia (SARA). Contemporaneamente però un eccesso della componente lipidica ha una azione negativa sulla microflora ruminale. Per questo motivo occorre fare molta attenzione.
Riassumendo, per aumentare il contenuto di grasso del latte le strategie da sfruttare sono: ottimizzare la componente fibrosa della dieta e aggiungere una certa quota di grassi, meglio se frazionati e by-pass.
La componente proteica
E’ utile ricordare che la caseina, essendo una proteina di origine animale, ha un profilo ricco di aminoacidi essenziali. Questo significa che gli aminoacidi che arrivano alla mammella devono essere di alto valore biologico.
La valutazione generica della proteina della dieta non è più sufficiente per predire in modo completo il suo destino metabolico, ma converrebbe ragionare in termini appunto di proteina metabolizzabile (MP). La MP è composta da:
1) proteina batterica, che rappresenta in assoluto la miglior fonte di aminoacidi alto valore biologico;
2) proteina che non viene degradata a livello ruminale.
Il punto 1 quindi è favorire la sintesi di proteina batterica. Per questo occorre fornire un adeguato quantitativo di proteina degradabile (e di questa solubile). Inoltre occorre mettere la microflora ruminale nelle condizioni di essere il più efficiente possibile attraverso un adeguato apporto energetico.
È interessante osservare come la classificazione delle frazioni proteiche e dei carboidrati attraverso il sistema CNCPS abbia la stessa nomenclatura (A,B,e C), in relazione al coefficiente di degradabilità che queste hanno all’interno del rumine. Risulta allora intuitivo capire come le componenti dello stesso gruppo siano strettamente correlate tra loro. Quindi lo scenario ottimale risulta essere quello in cui le varie frazioni di proteine e carboidrati con lo stesso coefficiente di degradabilità devono essere rappresentate in uguale misura. A titolo di esempio, fornire proteina solubile (B1) o addirittura azoto non proteico sottoforma di urea (A), deve essere accompagnato da un corrispondente apporto di amidi (B1) e zuccheri (A).
Il punto 2 rappresenta la quota proteica non degradabile che bypassa il rumine. Quindi la strategia nutrizionale dovrebbe essere quella di fare in modo che buona parte della proteina non degradabile sia di alto valore biologico. Purtroppo, però il mondo vegetale non è tanto generoso sotto questo aspetto. Alcuni alimenti tuttavia, presentano un profilo aminoacidico interessante. Tra questi ricordiamo il girasole ed i suoi sottoprodotti, il glutine di mais, le trebbie di birra e i sottoprodotti della distilleria.
Infine, anche nella capra da latte può risultare utile integrare la razione con un apporto di aminoacidi in forma rumino-protetta.
La capra da latte presenta delle caratteristiche uniche, anche in termini di fabbisogni nutrizionali. Per questo motivo, molto spesso gli interventi che vengono messi in atto per migliorare le caratteristiche qualitative del latte risultano deludenti. Abbiamo visto che non è possibile, per soddisfare il fabbisogno energetico, intervenire aumentando i carboidrati non strutturali. Questo obiettivo può essere raggiunto somministrando un giusto apporto di grassi. Questo però potrebbe avere un effetto negativo sulla microflora ruminale che è deputata altresì alla degradazione della proteina. Tutto questo per dire che esiste una stretta relazione tra principi nutritivi forniti con l’alimentazione e tutti i vari meccanismi implicati nella genesi dei tenori lipidici e proteici del latte.
In conclusione, per migliorare la qualità del latte occorre applicare puntualmente i concetti appena trattati in un’ottica di insieme.
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